Dalle camicie rosse ai furbetti del latticino
La provincia di Bergamo, che diede ai Mille più uomini di tutte le altre, ora è il cuore del separatismo padano. Dove i Cobas degli allevatori trovano protezione
34. PONTIDA
Dalle camicie rosse ai furbetti del latticino
La provincia di Bergamo, che diede ai Mille più uomini di tutte le altre, ora è il cuore del separatismo padano. Dove i Cobas degli allevatori trovano protezione
La grande Vacca Celeste, che per gli egizi emerse dalle acque portando tra le corna il sole, da queste parti non si è mai vista. E se anche fosse apparsa sarebbe finita sotto uno dei camion che rombano lungo l’intasatissima via Briantea. Ma è difficile passare per Pontida senza avvertire l’alito della grande Vacca Verde. Vacca celtica. Vacca padana. Vacca più generosa ancora di Audumla, che nella mitologia germanica permise ai giganti di dissetarsi alla sue mammelle «da cui fluivano quattro fiumi di latte». Allora non soggetto, si capisce, ai limiti sulle quote della comunità europea. Intendiamoci, di vacche in carne e ossa, in questa valle San Martino che da Bergamo sale verso Lecco, ne sono rimaste poche. E se la splendida Riviera ha conservato coi suoi vigneti qualcosa di agreste così come il dirimpettaio monte Canto coperto dai castagni che ingoiano le chiesette battute da papa Giovanni quando era un pretino di gamba buona, il fondovalle dove è Pontida è ingombro di capannoni, stabilimenti, depositi, supermercati, rottami industriali. Eppure è qua, la stalla metafisica della grande Vacca Verde. Quella che da anni prende a cornate la Ue e implicitamente tutti i contribuenti italiani. Bossi ha rinnovato anche quest’anno, sul «prato sacro », il suo giuramento quando mancavano 10 giorni alla scadenza delle multe da pagare: «Non posso dire il perché e il percome ma tra pochi giorni capirete. Adesso siete disperati ma io non vi ho dimenticati e la Lega risolverà i vostri problemi ». Rassicurati dalla certezza di un nuovo rinvio, i Cobas del latte hanno sventolato le bandiere: «Evviva!».
Esultanza comprensibile: a nessuno piace pagare, tanto più se la gabella è vissuta, a torto o a ragione, come un’ingiustizia. Più difficile, però, è spiegarlo agli altri. Sapete quanto è costato finora agli italiani il braccio di ferro tra poche migliaia di irriducibili e la Ue? Quattro miliardi e 407 milioni di euro. In valuta corrente. Contando l’inflazione, oltre 5 miliardi: il costo del ponte di Messina. Per capirci: oltre 83 euro a cittadino. Da Bolzano a Lampedusa. Cosa che fa uscire pazzo il ministro dell’agricoltura Giancarlo Galan: «Per pochi furbetti mettiamo a rischio la credibilità e gli interessi del Paese. La Lega non può cavalcare questa protesta». Risposta leghista: «Giù le mani dalle vacche padane, l’abbiam giurato sul sacro suol!».
Che questo suolo stravolto dall’urbanizzazione sia sacro a tutti i patrioti è vero. Dal 7 aprile 1167 in cui la sala capitolare dell’abbazia cluniacense ospitò il celeberrimo giuramento che partorì la Lega Lombarda contro il Barbarossa, Pontida è un mito. Coltivato, spiega lo storico Paolo Grillo, dai padri del Risorgimento. Sublimato dal calzolaio Celestino Riva (il quale sbarcato coi Mille a Marsala perse un braccio a Calatafimi) e dai quattro compaesani che, partiti al seguito del condottiero, fecero di Pontida il paese più garibaldino d’Italia. Cuore della provincia più garibaldina, quella Bergamo che diede 174 camicie rosse con la prima ondata più altre 1400 con le successive, compresi, ha raccontato Paolo Rumiz, 40 alunni del liceo Sarpi sulle cui pagelle a fine anno fu scritto al posto dei voti «ito in Sicilia » o «defunto in Sicilia». Per non dire delle adunate fasciste. Cronaca dell’Eco di Bergamo dell’8 aprile 1940: «Una Pontida imbandierata, in una festante cornice di sole e di pubblico (...) ha rivissuto ieri mattina (...) la gloriosa data del giuramento della Lega Lombarda. Mai tanto flusso di folla ha invaso le vie del paese pavesato in ogni dove di tricolore...».
Cinquant’anni dopo, il fondatore della Lega, Umberto Bossi, annuncia la «Marcia di Pontida ». Una festa, scrive l’Ansa, che si terrà «ogni anno nella prima settimana di aprile. I giovani della Lega si recheranno a piedi da ogni parte della Lombardia». Al primo appuntamento arrivano in alcune centinaia. A piedi, però, fanno solo tre chilometri. Rischiando di essere travolti dai tir. Altri vent’anni e nel 2010, quando i leghisti torneranno per la 20º adunata, si ritroveranno con lo stesso problema. Aggravato. Un rapporto dell’Aci dice che la trafficatissima statale Briantea è una delle più pericolose della regione e del Paese. Ma i lavori di ammodernamento, che dovevano essere completati per i mondiali del 1990, non sono mai finiti. E i cantieri dell’ultimo tratto interrato della bretella sono ancora lì. A testimoniare, oh mamma che vergogna, che non solo i terroni ci mettono una vita per fare le cose. Dettaglio confermato, del resto, dai piloni di cemento marcio che svettano osceni tra le vigne della Riviera e i castagni del Canto. Erano della vecchia teleferica che dalla immensa cava di Colle Pedrino portava il materiale a Pontida per risalire e ridiscendere fino alla smisurata Italcementi di Calusco. Quando il cementificio ottenne il consenso di scavare un tunnel e metterci un nastro trasportatore, si impegnò a smantellare tutto. Ciao...
Camicie rosse, camicie nere, camicie verdi. In marcia attraverso vallate in cui tutto è cambiato ma tutto è rimasto per certi aspetti uguale. Mezzo secolo fa Montanelli scriveva di questi paesi come «chiusi microcosmi» che «incubavano anche una sospettosa e puntigliosa xenofobia e, per converso, un senso acuto e ribelle delle autonomie di campanile». Qui debuttò nel '56 il Movimento Autonomista Bergamasco di Guido Calderoli (nonno del nostro), qui apparve nel '58 il Movimento Autonomie Regionali Padane, qui spuntò fuori l’Unione Autonomisti Italiani destinata a darsi il nome di Uai - Padania Libera con uno statuto firmato nel '67 dove? Ovvio: a Pontida.
Non c’era, però, il rancore sordo di oggi contro Roma e il mondo... Dice Ermanno Olmi che no, non riconosce più le sue terre. Certo, alcuni angoli sono rimasti miracolosamente fedeli a quel mondo contadino raccontato nell’Albero degli zoccoli. «Ma io non riconosco più gli uomini », sospira il grande regista. «Anche se si sono mantenute le chiese come edificio, sono cambiati quelli che ci vanno». È molto tempo, dice, che qui non si sente più a casa sua: «Da quando cominciò un tipo di razzismo, tanti anni fa, che non era di bianchi sui neri ma di quelli che avevano fatto i soldi su quelli che non li avevano fatti. Come se ciò fosse una misura del valore degli uomini».
Se ha ragione, tempi durissimi per gli operai vinti dalla crisi. La provincia che dal 2001 aveva scalato le classifiche del Pil arrivando all’11˚ posto in Italia, ha accumulato nei primi tre mesi dell’annus horribilis 2009 più di due milioni di ore di cassa integrazione. E due grandi stabilimenti vicini a Pontida, la tessile Legler e la Indesit sono finite kappaò. Unite dallo stesso destino, dicono, di certe camicie rosse bergamasche: morte per il Sud. La Indesit di Brembate, 450 operai, sta per pagare un piano di rilancio che punta sull’impianto campano del gruppo. La Legler, che occupava 500 persone, è stata trascinata nella crisi degli impianti sardi.
Camicie rosse, camicie nere, camicie verdi. Tutto cambiato, tutto come prima. Come con le quote latte. Ne abbiamo viste di tutti i colori... Fantasmi come quello di Buzzacconi Giovanni che, morto nel 1987, ha continuato a mungere le sue 36 frisone per altri sette anni. E poi 55 mila aziende di carta con vacche di carta munte da contadini di carta fino al caso di una stalla che figurava in un attico a piazza Navona. E poi controlli pagati 300 mila lire ad azienda, subappaltati a un decimo e svolti con tanto scrupolo che un ispettore di Bolzano arrivò a far rapporto a una media vertiginosa di 114 stalle l’ora.
Un bordello. Che spinse il governo a dare una sterzata alla quale i rivoltosi risposero inondando le autostrade coi «negri spruzzi della morte» di cui aveva scritto Luigi Meneghello ricordando la preghiera dei contadini vicentini: «Liberaci dal lùame, dalle perigliose cadute dei lùamari così frequenti per i tuoi figlioli e così spiacevoli...». Per non dire del lancio nel firmamento tivù della mucca Ercolina, portata a Roma per «un cappuccino in diretta» (con schizzo nella tazza del caffè) a palazzo Madama, un salto in Rai da Giancarlo Magalli, una puntata al Costanzo show, un incontro con la marchesa Giacinta del Gallo di Roccagiovane. Fino a eccitare la concorrenza della non meno popputa pornostar Jessica Massaro che si presentò davanti a Montecitorio coperta solo da chiazze di vernice bianca e nera come si conviene alle vacche pezzate.
La domanda è: com’è possibile che tanti anni dopo sia rimasto tutto come allora? Che il nostro sia non solo il Paese che sfora sempre più di tutti ma l’unico che non paga o paga solo le briciole? Nel 2005-2006, per dire, pagammo 7 milioni di euro su quei 188 che erano la metà di tutte le ammende (377 milioni) di quell’anno. Il triplo della Germania (62 milioni) e il doppio della Polonia (91 milioni), che da allora però riga diritto. L’anno dopo, replay: su 220 milioni di multe ai 6 paesi che avevano sforato, 176 erano ai nostri. Che, ovvio, non han pagato. E via così fino al 2008-2009, quando ci siamo spartiti con l’Olanda la quasi totalità delle multe.
Dicono gli allevatori che fu l’Italia a sbagliare quando l’Europa nell’84 decise per le quote. «C’erano eccedenze spaventose che costavano migliaia di miliardi di lire», ricorderà l’allora ministro dell’agricoltura Filippo Maria Pandolfi. «Le più spaventose erano, soprattutto in Germania, Olanda e Francia, quelle di latte». Che era ritirato, come le arance del Sud, a carico dell' Unione.
Decisero: facciamo una foto dell’esistente. E cosa fecero i nostri? Risposero all’indagine Istat come fosse una dichiarazione dei redditi: stando al più basso possibile. Perché l’Europa voleva sapere i fatti loro? Morale: quei dati falsi per difetto finirono nel fascicolo europeo. E furono la base della ripartizione delle quote. E l’Italia, che aveva 457 mila allevatori di cui «un terzo con meno di 10 vacche», si ritrovò a poter produrre, nonostante coprisse solo il 60% del fabbisogno, non più di 90 milioni di quintali di latte l'anno. Un terzo di quelli concessi alla Germania e molto meno della metà di quelli permessi alla Francia. Una sproporzione assurda. Corretta negli anni col contagocce. Al punto che ancora nel 2008-2009, prima di un’aggiunta di 7 milioni e mezzo di quintali strappata da Luca Zaia, l’Italia doveva star dentro i 105 milioni di quintali contro i 282 della Germania, i 246 della Francia, i 148 del Regno Unito e i 112 dell’Olanda. Per capirci: ogni italiano consuma, compresi burro, gelati, formaggi, scarti di lavorazione, un litro di latte al giorno. Più o meno come gli altri europei. Ma può produrre solo 480 grammi pro capite contro i 940 dei tedeschi, i 1.120 dei francesi, i 1.920 degli olandesi. Va da sé che siamo costretti a importare tantissimo latte, andando in rosso nel 2009 per 178 milioni.
«Visto? Hanno ragione gli agricoltori a non pagare!», dirà qualcuno. No: hanno torto. Perché c’è modo e modo di ribellarsi alle ingiustizie: puoi fare l’iradiddio dando battaglia o puoi rubare il portafogli ai passanti per rifarti. I «furbetti del latticino» hanno scelto questo: si rifanno sulla pelle degli altri italiani. Soprattutto di quegli allevatori onesti che, giusta o sbagliata che sia la legge, la rispettano. Vogliamo dirla tutta? Gli errori, così gravi che i governi di tutti i colori non sono mai riusciti ametterci una toppa, sono stati due. Il primo di calcolo: troppo bassa la quota nostra. Il secondo di testa: il messaggio agli agricoltori, più o meno ammiccante, fu che le cose si sarebbero aggiustate. All’italiana. Non arriva sempre, prima o poi, da noi, un condono? Non bastasse, nel '94 le multe al posto di chi aveva sforato per anni le pagò, per un totale di 2.600 milioni di euro attuali, lo Stato. L’Europa abbozzò: ok, ma solo stavolta. Sennò sono aiuti di Stato. Illegittimi.
Macché: vistisi premiati, i furbi continuarono come prima. Anzi. Mentre prima tutto era così, casareccio (nessuno si premurava di incassare le multe), ora l’imbroglio si fece scientifico. E poiché la legge assegnava alle società che compravano il latte il ruolo di sostituto d’imposta (come l’azienda che trattiene le tasse ai dipendenti) degli allevatori, ecco spuntare le cooperative pirata. Che, ottenuto dalla Regione il «patentino» di «primo acquirente» si guardavano bene dal prelevare ai soci le multe. E una volta raggiunte dall’ingiunzione di pagamento, facevano ricorso al Tar, ottenevano la solita sospensiva e si affidavano alla lentezza della giustizia. Ci sono decine e decine di cause «sospese» da dieci anni. Decine.
Se poi la Regione mangiava la foglia e revocava il «patentino», la società si spostava. Dalla Lombardia al Piemonte, dal Veneto all’Emilia... In un tourbillon di sigle e liquidazioni, l’araba fenice risorgeva sempre. Una prova? La Corte dei conti friulana ha condannato una coop dei Cobas, in liquidazione coatta, a pagare 35,8 milioni di euro all’Agea, l’agenzia che deve girare i soldi alla Ue. Erano multe mai riscosse. La cooperativa si chiama «Savoia 5», quinta di una serie di «Savoia », che aveva trasferito la propria sede da Carmagnola, vicino a Torino, a 545 chilometri di distanza, a Brugnera, Pordenone.
A rimetterci sono gli allevatori in regola. Le quote latte infatti si possono liberamente vendere e acquistare. C’è chi le compra, per non sforare e chi gliele vende: secondo la Coldiretti gli allevatori a posto avrebbero sborsato 1.850 milioni di euro per rilevare o affittare quote. Ma dopo aver preso i soldi, qualche venditore continua spesso a produrre come prima e più di prima. Come ha fatto un modenese capace di accumulare multe per 10,8 milioni pur avendo venduto quote produttive per quasi mezzo milione. Certo di essere protetto da Cobas e politica. Anche se il nodo ora rischia di venire al pettine. Il «salvataggio» promesso da Bossi a Pontida, ovvero un rinvio di sei mesi dei pagamenti dovuti da chi ha sforato, si è rivelato un pasticcio. Il rinvio non scatta per chi non aveva già aderito a una generosa rateizzazione disposta dal ministero. E dal 15 novembre l’Agea potrebbe essere costretta a revocare le quote aggiuntive strappate da Zaia all’Ue. Con la morte nel cuore.
Il rapporto fra Lega e Cobas è stato fin dall’inizio stretto. Lo dice l’elenco dei finanziatori del Carroccio: ecco l’«Associazione produttori latte bovino pianura padana» di Montichiari, Brescia, l'associazione Emilat fondata da Fabio Rainieri poi parlamentare leghista, il Comitato spontaneo produttori latte di Saluzzo... È poi un caso se, prima di lasciare l’Agricoltura, Luca Zaia abbia piazzato al vertice dell’Agea Dario Fruscio, calabrese, già senatore leghista fidato al punto di essere stato messo a suo tempo alla presidenza di Euronord holding, l’involucro di Credieuronord, la banca della Lega, e poi su poltrone importanti all’Eni, a Sviluppo Italia, all’Expo 2015? Quanto al leader storico dei Cobas, Giovanni Robusti, «ministro dell’Agricoltura» del primo «governo » padano, capo delle camicie verdi, nel 2009 è stato condannato in primo grado a tre anni e mezzo per truffa allo Stato e alla Ue. L’accusa: aver inventato un sistema di fatturazione e vendita del latte in nero grazie alle citate coop «Savoia» da lui fondate. Dimensione della frode, secondo i giudici: 240 milioni. Imbarazzante.
Come gli venne in mente di chiamarle «Savoia»? Per irridere alla dinastia che fece l’Italia? Quel che è sicuro è che Robusti è stato sempre vicino alla Lega anche negli affari. Lo dimostra una società costituita nel '98. Si chiamava Cesia, «Consulenze economiche sugli interventi in agricoltura»: il 18% era di Robusti ma il 35% era della Fin Group. La finanziaria leghista presieduta da Stefano Stefani, allora ai vertici del partito. E la Credieuronord che il «furbetto del quartierino» Gianpiero Fiorani tentò di salvare dal crac? Aveva con la Cesia un rapporto organico. Non fosse altro perché Robusti, coincidenza, ne era anche consigliere.
Un pasticcio di società nate e morte da capogiro. Tra le quali una particolarmente curiosa. La «Cooperativa produttori latte tipico della pianura padana». Che dopo aver accumulato multe per due milioni e mezzo di euro viene trasformata in srl e venduta a una società del Delaware, stato americano che già Calisto Tanzi aveva individuato come paradiso fiscale. E chi è il compratore? Alexandru Rosianu. Direte: ma come, leghisti che ricorrono a un rumeno? Si sa che il mondo è pieno di contraddizioni. La più divertente è quella del sindaco di Pontida, il deputato leghista Pierguido Vanalli. Il quale, pur essendo bergamasco doc, avrebbe qualche imbarazzo a urlare «Roma ladrona»: è tifoso giallorosso. Prima dell’ultimo derby Roma-Lazio confidò all’Ansa: «Je la famo…».
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