La sostenibilità del cemento
La presentazione del rapporto socio-ambientale della Confindustria dei cementieri è l'occasione per fare il punto su un'industria in crisi. Il fatturato è calato del 25% in quattro anni. Scendono anche le emissioni (di pari passo con la riduzione della produzione). E i comitati contrari all'incenerimento di rifiuti negli impianti (leggi l'approfondimento da Ae 152) sarebbero affetti da "Sindrome Nimby"
di Luca Martinelli - 2 ottobre 2013
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L'industria del cemento soffre, e questa non sarebbe una notizia. I numeri contenuti nel primo "Rapporto di sostenibilità Aitec", l'Associazione italiana tecnico economica del cemento, relativo al 2012, sono invece, in parte, inediti.
Intanto, il fatturato complessivo del settore (28 aziende per un totale di 80 unità produttive) è in picchiata: dal 2009, quando sfiorava i 2,4 miliardi di euro, è sceso del 25 per cento nel 2012, quando ha raggiunto i 1.783 miliardi di euro. Lo scorso anno sono stati prodotti 26,2 milioni di tonnellate di cemento, contro le 47,9 del 2006, "picco" del settore. "Nonostante i contenuti tecnologici importanti, il valore economico riconosciuto è molto basso: 0,07 euro al chilo" come ha ricordato al Salone della Csr Roberto Terrone, direttore Ingegneria e investimenti Buzzi Unicem s.p.a. e coordinatore della task force che ha redattore il Rapporto. Per questo, ha aggiunto, "l'industria del cemento ha una distribuzione capillare delle unità produttive".
Poi ci sono i dati sulle emissioni, innanzitutto quelle di CO2. "Il settore del cemento italiano ha ridotto le proprie emissioni di CO2 del 38% dal 1990 -spiega il Rapporto-. Tale riduzione è avvenuta a fronte di una diminuzione di minore entità (36% circa) dei volumi produttivi". È vero, ha spiegato Terrone, che "il 44% del calcare (l'ingrediente principe del cemento, ndr) diventa CO2, è una legge fisica e non ci si può far niente", ma ciò significa che d'innovazione tecnologica, dal 1990 ad oggi, in questi impianti se n'è conosciuta poca.
Infine, un dato interessante in merito al consumo di energia elettrica ed energia termica, che è in aumento (per tonnellata di prodotto). Il motivo -spiega Terrone- è che le "macchine hanno una capacità di produzione doppia rispetto a quella che stanno effettivamente realizzando, con un conseguente aumento dei costi specifici". Di questa situazione alcuni hanno preso atto, come Italcementi, che ha annunciato la chiusura di circa la metà dei proprio impianti italiani, altri non ancora.
Giuseppe Schiltzer, direttore di AITEC , ha spiegato che il rapporto di sostenibilità si è reso necessario in quanto vedeva molti associati "soffrire della percezione negativa del 'prodotto cemento'". Per questo, l'associazione ha rivoluzionato la propria strategia di comunicazione.
Ecco allora che sulla slide "chiave" di tutta la presentazione, quella relativa alla "sostituzione di rifiuti nei cementifici", che vede l'Italia terribilmente indietro rispetto ad altri Paesi europei, con un 8 per cento contro il 30% medio, campeggia il titolo "Sindrome Nimby".
Sull'utilizzo dei combustibili solidi secondari invece di carbone e pet-coke si gioca (in parte) il futuro del settore. E così i cittadini contrari e i parlamentari che propongono mozioni contro la trasformazione dei cementifici in co-inceneritori sarebbe affetti dalla sindrome del Not In My Back Yard. Non sono mai presentati come stakeolder con cui interloquire, che è la prima regola di ogni buon percorso di responsabilità sociale d'impresa.
Intanto, il fatturato complessivo del settore (28 aziende per un totale di 80 unità produttive) è in picchiata: dal 2009, quando sfiorava i 2,4 miliardi di euro, è sceso del 25 per cento nel 2012, quando ha raggiunto i 1.783 miliardi di euro. Lo scorso anno sono stati prodotti 26,2 milioni di tonnellate di cemento, contro le 47,9 del 2006, "picco" del settore. "Nonostante i contenuti tecnologici importanti, il valore economico riconosciuto è molto basso: 0,07 euro al chilo" come ha ricordato al Salone della Csr Roberto Terrone, direttore Ingegneria e investimenti Buzzi Unicem s.p.a. e coordinatore della task force che ha redattore il Rapporto. Per questo, ha aggiunto, "l'industria del cemento ha una distribuzione capillare delle unità produttive".
Poi ci sono i dati sulle emissioni, innanzitutto quelle di CO2. "Il settore del cemento italiano ha ridotto le proprie emissioni di CO2 del 38% dal 1990 -spiega il Rapporto-. Tale riduzione è avvenuta a fronte di una diminuzione di minore entità (36% circa) dei volumi produttivi". È vero, ha spiegato Terrone, che "il 44% del calcare (l'ingrediente principe del cemento, ndr) diventa CO2, è una legge fisica e non ci si può far niente", ma ciò significa che d'innovazione tecnologica, dal 1990 ad oggi, in questi impianti se n'è conosciuta poca.
Infine, un dato interessante in merito al consumo di energia elettrica ed energia termica, che è in aumento (per tonnellata di prodotto). Il motivo -spiega Terrone- è che le "macchine hanno una capacità di produzione doppia rispetto a quella che stanno effettivamente realizzando, con un conseguente aumento dei costi specifici". Di questa situazione alcuni hanno preso atto, come Italcementi, che ha annunciato la chiusura di circa la metà dei proprio impianti italiani, altri non ancora.
Giuseppe Schiltzer, direttore di AITEC , ha spiegato che il rapporto di sostenibilità si è reso necessario in quanto vedeva molti associati "soffrire della percezione negativa del 'prodotto cemento'". Per questo, l'associazione ha rivoluzionato la propria strategia di comunicazione.
Ecco allora che sulla slide "chiave" di tutta la presentazione, quella relativa alla "sostituzione di rifiuti nei cementifici", che vede l'Italia terribilmente indietro rispetto ad altri Paesi europei, con un 8 per cento contro il 30% medio, campeggia il titolo "Sindrome Nimby".
Sull'utilizzo dei combustibili solidi secondari invece di carbone e pet-coke si gioca (in parte) il futuro del settore. E così i cittadini contrari e i parlamentari che propongono mozioni contro la trasformazione dei cementifici in co-inceneritori sarebbe affetti dalla sindrome del Not In My Back Yard. Non sono mai presentati come stakeolder con cui interloquire, che è la prima regola di ogni buon percorso di responsabilità sociale d'impresa.
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