Giorni dalla firma tra Italcementi ed i Comuni

NON HANNO FIRMATO I SINDACI DI : Paderno d'Adda e Solza . HANNO FIRMATO : Calusco d'Adda, Cornate d'Adda, Imbersago, Medolago, Parco Adda Nord, Robbiate, Verderio Inferiore, Verderio Superiore, Villa d'Adda, Dopo più di 1.000 giorni dalla firma ,il 4 Maggio 2012 non si hanno notizie sulla ferrovia . Solo ombre su questo accordo fantasma , polvere , puzza, inquinamento . http://calusco.blogspot.it/2012/05/comunicato-stampa-tavolo-italcementi.html

Countdown alla ferrovia

il tempo e' finito del collegamento ferroviario nessuna notizia ,Piu' di 1.000 giorni TRE ANNI e nulla di fatto, meditate .

Friday, December 28, 2007

La Repubblica della mafia Riconosciuta dalle banche

La Repubblica della mafia Riconosciuta dalle banche

di Stefano Lorenzetto - giovedì 27 dicembre 2007, 09:10



La chiusura di sette impianti e la sospensione di ogni attività in Sicilia, decisa dalla Italcementi di Bergamo (quinto produttore di cemento al mondo) nel timore di infiltrazioni mafiose, è una buonissima notizia. Segnala un cambiamento di mentalità. Un tempo questi colossi industriali avevano un’unica preoccupazione: non finire sui giornali. Adesso alcuni loro dirigenti condannati o incriminati per collusioni con Cosa nostra diventano un caso da prima pagina proprio grazie al proficuo intervento dell’azienda. Un mio collega, assunto negli Anni 60 come cronista di nera a La Notte, quotidiano del pomeriggio che apparteneva a Carlo Pesenti, proprietario della Italcementi, un giorno segnalò al direttore Nino Nutrizio un incidente mortale avvenuto in un cantiere. «Che cantiere?», chiese il leggendario giornalista dalmata. «Della Italcementi», rispose il mio collega. Replica di Nutrizio, che pure aveva come unico padrone il lettore: «I dipendenti della Italcementi godono tutti di ottima salute». E la notizia fu cestinata.

Basterà la dirompente decisione della Italcementi a cambiare le cose in Sicilia? Ne dubito molto. Per il semplice motivo che l’atteggiamento prevalente di chi scende dal Nord per operare al Sud è ben diverso da quello del gruppo bergamasco. Mi spiego. In questi giorni è venuto a trovarmi un imprenditore che per 40 anni ha ricoperto posizioni di vertice in una delle principali società di costruzioni italiane, ramo appalti pubblici (aeroporti, autostrade, ferrovie, porti, ospedali, carceri). Adesso che è in pensione, questo settantenne - sincero, rispettoso delle leggi, politicamente orientato, per nulla interessato ai soldi - è andato in Sicilia a curare gli affari di una società quotata in Borsa: un modo per sentirsi ancora utile, visto che il lavoro, e non il guadagno, è stato l’hobby della sua vita. Non posso svelarne il nome perché desidero che torni a farmi gli auguri di Natale anche l’anno prossimo.

«All’inizio non ci credevo nemmeno io», mi ha confidato, «ma poi nel giro di pochi mesi ho capito come funziona laggiù. La mafia è lo Stato, è l’economia, produce reddito, dà lavoro a tutti. Se si ferma la mafia, si ferma la Sicilia. Quella è una repubblica a parte. E guardi che glielo dice uno che non ha avuto né richieste di pizzo, né minacce, né impedimenti, niente di niente».
Gli ho chiesto di farmi qualche esempio concreto. «Molto semplice», ha aperto il portafoglio. «Li vede questi assegni circolari? Quanti saranno? Venti? Trenta? Tutti posdatati. Lunedì li presenterò alla mia banca, che li accetterà e mi verserà il corrispettivo sul conto. Ecco, guardi questo: è di un istituto di credito delle sue parti, Selvazzano Dentro, provincia di Padova. Vede la data? 5 maggio 2008. Ottomila euro. In Italia è reato. In Sicilia è contante. Le cambiali là non esistono, nessuno le usa. Chi si fa pagare con una cambiale, puzza già di cadavere. Solo assegni posdatati. Le banche li custodiscono nei caveau e li tirano fuori nel giorno stabilito. Una contabilità clandestina, accettata da tutti. Altrimenti non lavori».

S’è sorpreso per il mio sbigottimento. «Si stupisce? Non è che un esempio. Gliene faccio un altro, che coinvolge sempre le banche, del Nord come del Sud, senza differenze. L’altro giorno si presenta un impresario edile al quale fornisco materiale per la costruzione di uno splendido albergo sul mare. Mi deve già 30.000 euro. Se non mi paga, io smetto le consegne, gli ho detto. “Le va bene un acconto?”, mi fa lui. E sia, mi dia questo acconto. Compila un assegno, ovviamente posdatato. Leggo in calce: aveva firmato con nome e cognome di un’altra persona. Scusi, ma che cos’è ’sta roba? “Non c’è problema”, risponde quello. Allora consegno l’assegno alla segretaria, perché lo spedisca per fax alla banca. Dalla filiale le rispondono: “Tutto ok, identità e specimen corrispondono”. Capito? In Sicilia parecchi conti correnti hanno un intestatario di comodo e la firma depositata è di un altro che usa i blocchetti degli assegni».
Mi ha raccontato queste illegalità con la massima naturalezza. L’idea di denunciarle in Procura o alla Guardia di finanza non lo sfiorava nemmeno. S’era semplicemente adattato, a differenza della Italcementi, all’andazzo generale. Business is business, no? Ha ragione da vendere Giuseppe Bortolussi, segretario e direttore della combattiva Cgia di Mestre, quando denuncia che «lo Stato lascia quattro regioni in mano alla criminalità organizzata» e che «mentre commercianti, artigiani e liberi professionisti hanno la targa, sono noti, riconoscibili, di un quinto dell’Italia non si sa nulla». Ma lo sconcerto aumenta andando a esaminare la situazione dell’ordine pubblico in questo Stato parallelo controllato dalla mafia.
Premetto che sarebbe molto interessante un confronto fra la presenza di immigrati irregolari in Sicilia rispetto al Nord, giacché a memoria non mi pare che i clandestini sull’isola abbiano molte occasioni per esprimere la loro attitudine a delinquere. Ma limitiamoci ai dati ufficiali dell’ultimo Rapporto sulla criminalità in Italia del ministero dell’Interno. «La Sicilia», leggo, «è la regione che registra la diminuzione percentuale più consistente dei tassi di rapine, rispetto al 1991». Più precisamente, nell’ultimo quindicennio le rapine sono calate del 97,7%. Invece in Emilia Romagna sono aumentate del 47,2, in Toscana del 46,1, in Piemonte del 38,1, nel Veneto del 32,2, in Lombardia del 23,6.

Non meno sorprendente la situazione dei furti in appartamento. In Sicilia sono 192 ogni 100.000 abitanti (in diminuzione del 51,5% rispetto a dieci anni fa, 12° posto nella graduatoria nazionale). In Val d’Aosta 369, Piemonte 355, Emilia Romagna 331, Lombardia 324, Liguria 287, Toscana 282, Lazio 254, Veneto 232. Lo stesso dicasi per gli scippi, che sempre nel periodo 1996-2006 in Sicilia sono calati del 38%. Oggi sull’isola se ne registrano 57 ogni 100.000 abitanti, grosso modo come nel Lazio (50), molto meno che in Campania (97). Quanto ai borseggi, il record spetta non alla Sicilia bensì alla Liguria (727), seguita da Lazio (521), Piemonte (451), Emilia Romagna (382) e Lombardia (361).

Persino per i furti d’auto la Sicilia si rivela una regione più tranquilla di altre parti d’Italia: 5,4, sempre ogni 100.000 abitanti. Di poco sopra la media nazionale (4,8), quasi come in Lombardia (4,8), meno che in Campania (10,5) e nel Lazio (8,2).

Si obietterà che in Sicilia avvengono, proprio a opera di Cosa nostra, i più efferati delitti. Macché: «Nel 2006 la regione presenta valori che si assestano sulla media italiana, con poco più di un omicidio ogni 100.000 abitanti». Si osserverà che sta dando i suoi frutti l’azione di contrasto della criminalità da parte delle forze dell’ordine e della magistratura e che queste statistiche sono fortemente influenzate dal senso civico degli abitanti delle regioni prese in esame, visto che le autorità possono registrare un reato solo in due modi: quando c’è la flagranza oppure affidandosi alle denunce dei cittadini. D’accordo, teniamo pure presente il cosiddetto «numero oscuro», cioè i reati di cui non si viene a conoscenza. Però è lo stesso rapporto del Viminale a evidenziare che «difficilmente non si denuncia un furto in appartamento o quello di un’auto, soprattutto se in presenza di polizza assicurativa».
A questo punto, non so perché, mi tornano in mente le parole che il professor Gianfranco Miglio, l’insigne costituzionalista che fu per un trentennio preside della facoltà di scienze politiche alla Cattolica di Milano, mi disse poco prima di morire: «Io sono per il mantenimento della mafia. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate». Le banche hanno già provveduto.

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